Ci ha scritto Daniela, lamentando:
Compro diverse riviste di maglia, ma le spiegazioni sono sempre fatte male. Ho ancora copie delle riviste che prendeva mia madre quarant’anni fa e le cose sono spiegate molto meglio, molto più chiare.

La foto di copertina dell’ultimo numero di Knitty
Se vuoi delle pubblicazioni di maglia virtualmente impeccabili, allora ci sono: solo che sono di norma in inglese. Knitty.com e Twistcollective.com ne sono due esempi on-line, Knitty è anche totalmente gratuita e la puoi consultare subito. Anche Interweave Knits, Knitscene, Knitting Traditions, Interweave Crochet, Knit.Wear (tutte pubblicate da Interweave e acquistabili anche in formato digitale tramite il sito della casa editrice), Vogue Knitting/Designer Knitting (stessa rivista, testate differenti per gli USA e l’Europa), Inside Crochet, Knit Simple e molte altre lo sono. Dietro a queste riviste però c’è un lavoro certosino. A parte alcune che hanno un team interno di designer, le altre funzionano mediante call for patterns: propongono periodicamente dei temi, i designer free-lance mandano le loro proposte legate a questi temi, le proposte accettate dalla testata vengono sviluppate dai designer, che vengono per questo pagati. A questo punto, il modello completo di spiegazioni sviluppate dal designer stesso viene inviato alla rivista, passato al setaccio da un’editor tecnico che lo verifica, le spiegazioni così modificate vengono spedite a un team di tester che lavorano il capo (in cieco, cioè senza avere contatti tra loro) in tutte le taglie verificando la correttezza delle spiegazioni, le loro annotazioni ripassano all’editor tecnico che le integra, solo a questo punto si passa all’editor formale e all’impaginazione.

Knitting Traditions si concentra sulla maglia vintage e folk
Quello che succede in Italia è che le filature commissionano la creazione dei pezzi a una magliaia che, essendo magliaia e non designer, fa spesso capi banali. Questi capi vengono passati a una persona che li guarda e dice “Ah, qui ci sono degli aumenti” e trae dal capo (e talvolta dagli appunti della magliaia) delle spiegazioni sommarie, ovviamente piene di errori, che vengono stampate così come sono, senza alcun controllo, editing o testing.
Un terzo livello, intermedio, è quello dei designer indipendenti, che di norma solo gli stessi che propongono i loro lavori alle riviste che usano i free-lance e che quindi aderiscono agli standard di queste riviste. Un designer indipendente, e questo vale di solito anche per i designer indipendenti italiani, ha quindi spesso un livello di cura editoriale, chiarezza delle spiegazioni e assenza di errori affine a quello delle riviste internazionali maggiori, anche se totalmente controllato dal designer stesso, che si preoccupa dell’editing e del testing (affidandolo a dei volontari). Allora è possibile, per esempio, andare su Ravelry e comprare le spiegazioni di questo cardi per bambino di Melissa LaBarre e trovi immediatamente un livello di cura e precisione molto superiore a quello delle riviste italiane.
Se hai dubbi e problemi relativi alla lavorazione a maglia o all’uncinetto, scrivi alla redazione e chiedi alle nostre esperte, cercheremo di pubblicare le risposte quanto prima possibile.
Ma allora perché le riviste di quarant’anni fa, a quanto dice Daniela, erano più corrette? Forse quarant’anni fa anche in Italia avevano dei tech editor che oggigiorno non usano più?
E soprattutto, è possibile rimediare in qualche modo alle lacune delle nostre pubblicazioni? Insomma, se le riviste italiane lasciano a desiderare io non voglio essere costretta a cercare un’alternativa, voglio piuttosto fare in modo che che migliorino! Penso che se ogni volta che un lettore di una rivista trova un errore negli schemi scrivesse alla redazione facendo presente il fatto, e se la redazione si vedesse arrivare decine di lettere ad ogni uscita, dopo un po’ si preoccuperebbe anche di far riguardare un attimo gli schemi, no? O almeno farebbe pressione sugli autori affinché controllino meglio quello che mandano da pubblicare!
Partiamo dall’inizio. Sì, le vecchie pubblicazioni erano più curate, anche se enormemente meno di quelle americane attuali. Il fatto è che a partire dagli anni trenta circa l’evoluzione della maglia ha iniziato a divergere: nei peasi di lingua inglese verso un tecnicismo sempre più accentuato e una sempre maggiore attenzione al dettaglio e negli altri paesi verso sempre crescenti semplificazione e impoverimento. Questa evoluzione divergente poi si è accentuata a partire dagli anni Settanta a causa dell’impatto di Elizabeth Zimmermann e Barbara G. Walker e ancora più di a partire dagli anni Novanta a seguito della comparsa della rivista Knitty (tutti fenomeni prevalentemente americani e/o legati al web).
Per quanto riguarda l’invitare le riviste a essere più puntuali, in astratto avresti anche ragione, peccato che in concreto la cosa presenti alcuni ostacoli. Il primo è che queste riviste italiane spesso non hanno una vera redazione, si limitano a essere una collezione di prodotti realizzati dalle filature e assemblati senza alcuna cura editoriale. Questo significa che tu puoi anche scrivere alla redazione, ammesso che ne trovi l’indirizzo, ma la redazione spesso non ti legge nemmeno perché più o meno non esiste.
Inoltre, il fatto è che non è che la spiegazione abbia un errore o due che tu possa segnalare. In genere la spiegazione non è presente in una forma comprensibile, ci si limita a pubblicare pochi appunti del tutto inssufficienti a capire la costruzione del capo. Anche alle riviste americane capita di scrivere una spiegazione contenente un errore, per esempio l’indicazione di intrecciare n maglie anziché m maglie. Quelli sono errori che capitano fisiologicamente. Il problema vero sorge quando le spiegazioni non sono correttamente impostate e mancano di struttura. Il fatto è che le piegazioni delle riviste italiane sono appunto male impostate e prove di struttura, quindi inutilizzabili nel loro complesso. Di norma non se ne salva una riga.
La verità è che l’unico mezzo di pressione possibile è non dare loro soldi. Le vendite che calano sono l’unico strumento di pressione reale.
Mmm, la situazione è peggiore di quanto pensassi… confesso che non ho mai comprato pubblicazioni italiane per realizzarne i modelli a maglia. Dedico poco tempo ai ferri e sono poco più che una principiante, ma soprattutto sono tremendamente tirchia e per ora mi sono avvalsa solo di modelli gratis trovati in Internet, per cui non mi rendevo conto che la situazione fosse tanto drammatica!
La verità e che non solo a livello di spiegazioni le pubblicazioni americane sono migliori. Ma anche a livello di styling, fotografia e così via. Molte riescono a far sembrare il lavorare la maglia un’attività povera, per nonne annoiate. Oltre alle riviste, poi, nel mondo anglo-sassone ci sono anche moltissimi libri alcuni divertentissimi come quelli della “Yarn Harlot” Pearl McPhee che riescono a far avvicinare alla maglia delle persone giovani (sotto i trent’anni) e ad rinnovare il linguaggio della maglia. Ho imparato a lavorare ai ferri in inglese (essendo di origini miste ho la fortuna di parlarlo molto bene) e sinceramente le riviste italiane “solite” non mi invogliano per niente a comprarle – purtroppo adesso ho un problema “linguistico” – non so “come si dice” in italiano, e provare a scrivere un blog in italiano implica lo stesso livello di disaggio come una visita dal dentista!
Correzione: * Molte riviste italiane riescono a far sembrare …
Cara Sasha ,hai fatto bene a sottolineare : “molte riviste italiane…..” ,ma si era capito benissimo !!
Questo, per rassicurarti sulla tua conoscenza della lingua italiana (mi stai facendo scrivere correttamente acc…!) e per farti ripensare all’apertura di un blog .Hai una perfetta conoscenza dell’inglese non solo come lingua ma soprattutto come modo di intendere il lavoro a maglia .Quale combinazione migliore ?
Io lavoro a maglia come avessi preso la licenza di 5a elementare con voti discreti, ma lì sono. Sarei in grado, però, di aiutarti con l ‘italiano anche se non ce ne sarebbe bisogno. Insomma ci vuole qualcuno che modernizzi questo tricot .Non se può più di vecchi modelli ,di cose difficilissime come certi lavori traforati che, oltre che vecchi (appunto, della nonna ), ti mandano al manicomio. Ho ripreso da poco quest’hobby, ma il web mi confonde le idee oppure me le da ma non le spiega per motivi di gretta economia che però alla lunga non ripaga nessuno . Pensaci! stefania
Io continuo a preferire il modo di redigere i pattern all”europea-continentale”. Il modo anglo-sassone di scriverli mi fa girare la testa e diventa difficile capire como sono costruiti i capi. Con qualche accenno ne ho sufficiente per eseguire correttamente un capo, ma è noiosissimo dovere leggere tantissimo nei pattern in inglese per potere capire cosa devo fare. Di fatto, da me mai si è eseguito un capo esattamente come figurava nel pattern: mia madre – che, del resto, era bravissima con i ferri – mi insegnò a lavorare ai ferri da piccola e lei sempre adattava le misure alla persona, quasi sempre “a naso”! (le matematiche non le piacevano). Anche faceva dei cambiamenti nei capi se la scollatura, le maniche o qualsiasi altro pezzo non le piacevano. Io ho continuato a fare lo stesso, sebbene a volte mi serva delle matematiche (non sempre, però, a volte anch’io faccio dei cambiamenti “a naso”).
La tua è una posizione interessante, anche se abbastanza OT. Infatti l’articolo non fa alcun riferimento alle caratteristiche delle spiegazioni bensì alla frequenza di grossi, spesso madornali errori (errori, nel senso di cose completamente sbagliate (per esempio un conto delle maglie che non quaglia con il numero di maglie richiesto dal punto da eseguire, non spiegazioni più o meno sintetiche) nelle riviste italiane. Tuttavia, a nostro avviso, il tuo approccio presenta alcuni problemi.
1. Innanzitutto, la preferenza per una modalità anziché l’altra è spesso legata all’abitudine, è un po’ come trovarsi a imparare a usare le bacchette per mangiare dopo aver usato esclusivamente coltello e forchetta per quarant’anni: cosa è meglio? Di solito quello a cui siamo più abituati, ma praticare risolutamente un altro metodo (o un altro strumento) significa capirne i vantaggi oltre alle novità. Questo non ci impedisce di continuare ad avere una preferenza personale.
2. In secondo luogo, l’approccio “italiano” prevede, appunto, una notevole esperienza. Guarda le migliori istruzioni “all’italiana” con gli occhi del principiante, quello che non sa nemmeno quali siano le differenze tra una diminuzione inclinata a destra e una inclinata a sinistra. Un modello spiegato nel modo riassuntivo che piace molto a te diventa impossibile da realizzare per un principiante, per quanto facile sia trovare il bandolo della matassa per una persona che, come te, ha una notevole esperienza. Questo significa che una persona esperta, con un modello dalle spiegazioni notevolmente dettagliate, potrà comunque portare a termine il lavoro e nell’eseguirlo imparare una tecnica nuova o due, così come potrà seguirne le linee generali apportandovi modifiche o cambiamenti anche radicali (o magari sfruttarne solo una parte e per il resto dare libero corso alla propria fantasia); ma un princpiante sarà comunque in grado di arrivare al termine di un capo anche relativamente complesso perché guidato passo passo e con istruzioni facili da comprendere e che possono essere seguite letteralmente.
3. Ancora, per chi come te (e come me peraltro) ha già una notevole esperienza non è necessario usare modelli tout-court. Nella “tradizione” angosassone, infatti, accanto ai modelli esistono le cosiddette “ricette”, set di istruzioni ridotte all’osso e che costuituiscono una sorta di template, un’ossatura minima che poi ognuno “arreda” nel modo che più gli o le piace. Per esempio, le costruzioni top down come spiegate da Barbara G. Walker in Knitting from the Top o quelle EPS di Elizabeth Zimmermann (vedi Knitting Workshop), ma anche quelle tabellari dei tre libri di Ann Budd, non sono modelli ferrei che ti impongono un determinato filato o una deterinata tensione: sono una struttura generale che puoi adattare di volta in vonta alle tue necessità e ai tuoi gusti per ottenere non uno bensì infiniti modelli diversi. Quindi, come vedi, gli anglosassoni hanno previsto la presenza di persone sufficientemente esperte o avventurose da non essere interessate a seguire un modello strettamente definito, laddove la pubblicitica italiana sulla maglia è ancorata a una modalità di comunicazione univoca e limitante. (E nella quale l’inesistente cura editorale fa sì che i modelli siano pieni di errori, appunto.)