Le nostre ave, più o meno in tutta Italia, sul fare della sera, ma prima dell’ora di preparare la cena, si incontravano sull’aia, nei cortili o ai bordi delle strade a chiacchierare e a lavorare a maglia, all’uncinetto o a cucire. (Le foto di questo articolo sono di Tranquillo Casiraghi.)
A partire dagli anni Cinquanta, il fotografo sestese Tranquillo Casiraghi ha ritratto la gente della Torretta, una ex villa di delizie della periferia di Sesto San Giovanni, oggi diventata un hotel di lusso ma all’epoca abitata da un’umanità variegata che viveva con pavimenti in terra battuta e bagni in comune. Negli anni Settanta la Torretta venne sgomberata e quella popolazione proletaria trasferita nelle case popolari. Tra i soggetti ritratti da Casiraghi compaiono le donne che nel pomeriggio si trovavano nel cortile a portare avanti lavori di cucito, a maglia, all’uncinetto. Un uso, questo diffuso più o meno in tutta Italia.
Si lavorava a maglia per vestire la famiglia, perché comprare i capi finiti costava di più, perché il lavoro delle donne era gratuito.
Questa tradizione ci appare spesso in una luce nostalgica, che la tinge di valori che indubbiamente erano presenti. Tuttavia, nella pratica del lavoro collettivo (del fàa filoss, si dice dalle mie parti) ci sono significati più complessi e profondi. In primo luogo, questi lavori non erano per passatempo. Sicuramente alcune delle donne erano appassionate di maglia e uncinetto, ma tutte le donne lo facevano per necessità familiare. Si lavorava a maglia per vestire la famiglia, perché comprare i capi finiti costava di più (contrariamente a ora), perché il lavoro delle donne era gratuito. Si lavorava anche su commissione per avere un minimo reddito autonomo, minimo perché, appunto, era il lavoro delle donne. Il tempo speso da ognuna di queste donne per produrre i capi e gli accessori, o per ripararli, era tempo di cura, non era tempo libero o di lavoro. Non aveva valore e tantomeno prezzo.
Nella cultura tradizionale alle donne non era permesso riposare, le donne dovevano “far andare le mani”, sempre. Per due donne fermarsi a chiacchierare era spesso considerato sconveniente, a meno ché contemporaneamente non facessero qualcosa di produttivo, per esempio lavorare ai ferri per gli altri. Le donne erano per lo più escluse dai passatempi, gli uomini finito il lavoro potevano andare a giocare a bocce, al circolo a bere un bicchiere o un caffè e a fare una partita a carte; le donne spesso scarsamente alfabetizzate semplicemente non sarebbero state ben viste a farlo.
L’archivio Tranquillo Casiraghi è forte di un fondo di 310 fotografie digitalizzate e disponibili on-line
Spogliate della retorica dei bei tempi andati, le foto di Casiraghi, che ha sempre raccontato questo mondo sospeso tra ruralità e industria, tra tradizione e lotta operaia, raccontano sì un mondo nostalgico, ma anche estremamente povero. Di un mondo fatto di un povertà dignitosa, ma anche di marginalizzazione femminile, riscattata finalmente nel passaggio al lavoro salariato nelle fabbriche. Nella sua serie sui protagonisti delle lotte operaie non compaiono i leader sindacali e politici. Ci sono uomini e donne comuni, quegli operai e quelle operaie che delle lotte degli anni Sessanta e Settanta erano la moltitudine dei visi. Se queste donne operaie non hanno i ferri in mano non è perché nessuna di loro lo facesse, ma perché la maglia aveva smesso di essere per loro una delle rare occasioni di socialità e precaria libertà.
Scrivi un commento